L’ “imprinting”: è una parola che utilizzo spesso,
probabilmente associandole un significato tutto mio, fino a qualche giorno fa,
in cui durante la lezione di Lab IV, ho sentito questa parola e ne ho compreso,
forse, il reale significato. Non ci ero andata troppo lontana, sapevo più o
meno a cosa si riferisse, ma ora ho sicuramente una visione più chiara. Allora,
riflettendo sul mio, o meglio, sui miei imprinting, mi è subito venuto in mente
ciò che ho sempre sostenuto essere un’ “imprinting”: Roma. Quando parlo di Roma
la definisco il mio imprinting nel momento in cui, circa 6 anni fa, guardando
il Colosseo, ho capito che sarebbe stata la “mia città”. Ma questo è il mio
imprinting “post adolescenza”, che sì, ha causato un cambio radicale nella mia
vita, è segnato sulla pelle, ma non è questo che voglio descrivere oggi.
Però, c’è da dire, che non è stato il primo, il più
segnante, credo. In teoria, essendo cresciuta in una posto costiero, ho pensato che avrei dovuto
ricercarlo nella mia città d’origine, magari ricordando ciò che provavo guardando
il mare. Nessun successo, niente di “eclatante”.
Per questo, ora voglio descrivere quello che è stato, probabilmente,
il primo vero imprinting (con il significato appreso a lezione) della mia vita,
quello dell’infanzia: le annuali escursioni sul Monte Epomeo durante i
soggiorni estivi ad Ischia. Ogni estate, da quando avevo 5 anni (o anche meno,
non ricordo), a Luglio, io e la mia famiglia unita passavamo 2 settimane in un
residence ad Ischia. Ogni estate, fino ai miei 11 anni, quando la mia famiglia
si è divisa perché i miei genitori si sono separati. Non vado ad Ischia da
allora, e oggi di anni ne ho 23 quasi. Però (e qui mi accorgo che, per quel che
ho capito, è stato questo il mio primo imprinting) nonostante sia passato del
tempo e la mia mente per autodifesa si sia dimenticata di tutto quello che è
stato, o per lo meno, i ricordi sono poco chiari, del Monte Epomeo mi ricordo
tutto e bene. Ricordo mio padre che, ogni anno, doveva necessariamente mangiare
il famoso coniglio nel ristorante lì, sul monte.
E allora, ogni anno,
gambe in spalla e si saliva. Ed è mentre si saliva che il paesaggio che mi circondava
non mi lasciava indifferente, a quanto pare. C’è qualcosa, relativa ad un
momento preciso, che mi è rimasta impressa particolarmente: vidi del fiori
bianchi, in mezzo al “nulla”, sulla roccia, e chiesi a mio padre cosa fossero.
Lui mi rispose che erano dei gigli e che erano fiori forti, per questo
crescevano indisturbati. Ho capito, con il passare degli anni, che questo
piccolo episodio mi aveva colpita quando ho deciso, per la prima volta, di
volerlo imprimere sulla pelle, dopo aver fatto ricerche e aver capito che quel
momento, quel giglio, era il significato che ho dato alla mia famiglia: la
forza e la purezza, nonostante tutto. La mia forza.
Se dovessi descrivere, invece, il luogo nel complesso, parlerei
innanzitutto di quel posto in cima al monte dove, finalmente, mio padre avrebbe
mangiato questo fantomatico coniglio: sembrava fuso con la pietra, rustico, quasi
irriconoscibile. Visto da lontano, oltre che sembrare irraggiungibile, aveva
una forma che all’epoca mi sembrava strana, frastagliata, tipica di un “cucuzzolo
della montagna”, ovvero ciò che era effettivamente. Poi arrivavo in cima e
tutto era più chiaro, c’era il pavimento, non dovevo volare per entrare nel
ristorante!
Oggi, se dovessi guardarlo con occhio critico, lo assocerei
ad una scultura: una roccia lavorata, scavata, livellata, anche con parti
costruite in cui collocare i vari spazi. Potrei sfruttare quest’idea per il mio
progetto, ovvero il prendere una forma più o meno semplice (nonostante la
montagna non lo sia) e scavarla, poi aggiungerci una parte, poi ricreare un vuoto
per riempirne un altro dalla parte opposta ad esempio.
Tornando alla vista “interna” al monte, ricordo che durante
la passeggiata, ci siam sempre imbattuti in questa piccola chiesetta che mi ha
dato sempre la stessa impressione, ovvero l’essere fusa con la roccia stessa.
Una volta salita, da lì, il panorama era magico, più magico
di tutti gli altri scorci mai visti. Il mare in lontananza, la costa con tutta
la città costruita e la montagna. C’era tutto, c’era il mare che, inevitabilmente
fa parte di me, la città sul mare e la montagna, che è ciò che paradossalmente
preferisco. E c’ era la mia famiglia unita, con me.
BIANCO INCASTONATO
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