venerdì 13 aprile 2018

To Do Time: La scacchiera- Maggie's Centre Barts (S.Holl)

Il principio compositivo su cui mi sono basata è la presenza di 3 layers che, uno all'interno dell'altro, si avvolgono intorno ad un nucleo centrale: 
1) La pelle esterna, fatta in vetro opaco su cui è disegnato il pentagramma della notazione noumatica
2) L'ossatura portante, fatta di cemento in forma ramificata
3) Gli "organi" interni, fatti in bamboo che corrispondono ai divisori e al corpo scala elicoidale

Il gioco e il movimento che ho creato si è basato sulla concezione di ascensione (sia come metafora della "scala neumatica" che della scala fisica), poi modificabile traslando e ruotando intorno al nucleo centrale i vari strati. Ho realizzato dei cubi colorati per ricreare la caratteristica della facciata e quindi le "note" da poter posizionare negli spazi vuoti scaturiti dallo sfalsamento dei layers.











lunedì 9 aprile 2018

To Do Time: La scacchiera - scelta della progetto/architetto


STEVEN HOLL

Nato nel 1947 in una cittadina dello stato d Washington, è un self-made architect: è partito “dal basso”, estraneo a lobby o circuiti, ma dotato di un talento e una grande energia tale da poter spiccare e farsi strada trasferendosi, successivamente agli studi, a New York.
Il paragrafo nel libro “Architettura e Modernità” in cui si parla di Steven Holl è intitolato “Metafora costruita e nominata”: è proprio questo concetto che mi ha fatto avvicinare particolarmente a questo architetto e al suo modo di agire, progettare, intendere l’architettura. Come tra gli architetti del post modernismo, negli anni successivi alla caduta del muro di Berlino, il principio su cui si basa la sua architettura è la comunicazione. La sua poetica, inoltre, è influenzata e caratterizzata da altri fattori, come ad esempio gli interessi fenomenologici, in quanto il progetto deve tener conto e sentire i materiali, l’azione della luce e di ciò che accade all’esterno. Un altro aspetto è l’uso della metaforizzazione, ovvero il richiamo ad immagini e simboli esterni all’architettura, o la consapevolezza del rapporto tra spazi aperti, contesto esterno ed edifici, il modo in cui si relazionano studiato nei minimi dettagli e, infine, la convinzione che un progetto di si debba basare su un’idea-forza.

Il progetto che voglio analizzare è il Maggie’s Centre Barts a Londra.
Il sito nel centro di Londra è adiacente all'ampio cortile dell'Ospedale di San Bartolomeo, più antico di Londra. Strati di storia caratterizzano questo sito unico, ed è un aspetto che Holl considera vivamente durante la fase di progetto. La composizione dell’edificio è simile ad una matriosca, è fatta di una strato all’interno di uno strato a sua volta all’interno di un altro strato. La struttura è una struttura in cemento ramificato, lo strato interno è di bambù e lo strato esterno è in vetro bianco opaco con frammenti di vetro colorati che richiamano la "notazione neumatica". La parola “neuma” significa "forza vitale", ed è questa la metafora con cui comunica l’opera. Lo strato di vetro esterno è organizzato in fasce orizzontali come un pentagramma mentre la struttura in cemento si ramifica come una mano. Il centro a tre piani ha una scala curva aperta solidale alla struttura in cemento con spazi aperti rivestiti verticalmente in bambù. L'ingresso frontale principale si trova sulla piazza principale, mentre c'è una seconda entrata a ovest che si apre sul giardino della chiesa adiacente. L'edificio termina con un giardino pensile e una grande sala per lo yoga, il Tai Chi, gli incontri ecc. Il carattere interno di questo edificio e l’integrazione degli aspetti fenomenologici si basa sulla modellazione di luci colorate che si riflettono sui pavimenti e le pareti, cambiando a seconda dell'ora del giorno e della stagione. L'illuminazione interna sarà organizzata per permettere alle lenti colorate insieme al vetro bianco traslucido della facciata di infondere un senso di gioia e relax.








giovedì 5 aprile 2018

To Do- Degli Imprinting

Ischia e il Monte Epomeo.


L’ “imprinting”: è una parola che utilizzo spesso, probabilmente associandole un significato tutto mio, fino a qualche giorno fa, in cui durante la lezione di Lab IV, ho sentito questa parola e ne ho compreso, forse, il reale significato. Non ci ero andata troppo lontana, sapevo più o meno a cosa si riferisse, ma ora ho sicuramente una visione più chiara. Allora, riflettendo sul mio, o meglio, sui miei imprinting, mi è subito venuto in mente ciò che ho sempre sostenuto essere un’ “imprinting”: Roma. Quando parlo di Roma la definisco il mio imprinting nel momento in cui, circa 6 anni fa, guardando il Colosseo, ho capito che sarebbe stata la “mia città”. Ma questo è il mio imprinting “post adolescenza”, che sì, ha causato un cambio radicale nella mia vita, è segnato sulla pelle, ma non è questo che voglio descrivere oggi.

Però, c’è da dire, che non è stato il primo, il più segnante, credo. In teoria, essendo cresciuta in una posto  costiero, ho pensato che avrei dovuto ricercarlo nella mia città d’origine, magari ricordando ciò che provavo guardando il mare. Nessun successo, niente di “eclatante”.

Per questo, ora voglio descrivere quello che è stato, probabilmente, il primo vero imprinting (con il significato appreso a lezione) della mia vita, quello dell’infanzia: le annuali escursioni sul Monte Epomeo durante i soggiorni estivi ad Ischia. Ogni estate, da quando avevo 5 anni (o anche meno, non ricordo), a Luglio, io e la mia famiglia unita passavamo 2 settimane in un residence ad Ischia. Ogni estate, fino ai miei 11 anni, quando la mia famiglia si è divisa perché i miei genitori si sono separati. Non vado ad Ischia da allora, e oggi di anni ne ho 23 quasi. Però (e qui mi accorgo che, per quel che ho capito, è stato questo il mio primo imprinting) nonostante sia passato del tempo e la mia mente per autodifesa si sia dimenticata di tutto quello che è stato, o per lo meno, i ricordi sono poco chiari, del Monte Epomeo mi ricordo tutto e bene. Ricordo mio padre che, ogni anno, doveva necessariamente mangiare il famoso coniglio nel ristorante lì, sul monte.
E allora, ogni anno, gambe in spalla e si saliva. Ed è mentre si saliva che il paesaggio che mi circondava non mi lasciava indifferente, a quanto pare. C’è qualcosa, relativa ad un momento preciso, che mi è rimasta impressa particolarmente: vidi del fiori bianchi, in mezzo al “nulla”, sulla roccia, e chiesi a mio padre cosa fossero. Lui mi rispose che erano dei gigli e che erano fiori forti, per questo crescevano indisturbati. Ho capito, con il passare degli anni, che questo piccolo episodio mi aveva colpita quando ho deciso, per la prima volta, di volerlo imprimere sulla pelle, dopo aver fatto ricerche e aver capito che quel momento, quel giglio, era il significato che ho dato alla mia famiglia: la forza e la purezza, nonostante tutto. La mia forza.

Se dovessi descrivere, invece, il luogo nel complesso, parlerei innanzitutto di quel posto in cima al monte dove, finalmente, mio padre avrebbe mangiato questo fantomatico coniglio: sembrava fuso con la pietra, rustico, quasi irriconoscibile. Visto da lontano, oltre che sembrare irraggiungibile, aveva una forma che all’epoca mi sembrava strana, frastagliata, tipica di un “cucuzzolo della montagna”, ovvero ciò che era effettivamente. Poi arrivavo in cima e tutto era più chiaro, c’era il pavimento, non dovevo volare per entrare nel ristorante!
Oggi, se dovessi guardarlo con occhio critico, lo assocerei ad una scultura: una roccia lavorata, scavata, livellata, anche con parti costruite in cui collocare i vari spazi. Potrei sfruttare quest’idea per il mio progetto, ovvero il prendere una forma più o meno semplice (nonostante la montagna non lo sia) e scavarla, poi aggiungerci una parte, poi ricreare un vuoto per riempirne un altro dalla parte opposta ad esempio.

Tornando alla vista “interna” al monte, ricordo che durante la passeggiata, ci siam sempre imbattuti in questa piccola chiesetta che mi ha dato sempre la stessa impressione, ovvero l’essere fusa con la roccia stessa.
Una volta salita, da lì, il panorama era magico, più magico di tutti gli altri scorci mai visti. Il mare in lontananza, la costa con tutta la città costruita e la montagna. C’era tutto, c’era il mare che, inevitabilmente fa parte di me, la città sul mare e la montagna, che è ciò che paradossalmente preferisco. E c’ era la mia famiglia unita, con me.

BIANCO INCASTONATO